venerdì 4 aprile 2008
CALCIO E RABBIA SOCIALE
Editoriale di Paolo De Nardis*
Sembra che la guerra tra estremisti tifosi si sia spostata dalle curve degli stadi alle piazzole e autogrill della nostra rete autostradale, un tempo vanto infrastrutturale del capitalismo italico della fine degli anni 60, inizio 70, e oggi teatro di due morti violente di due giovani nel giro di pochi mesi.La tragica fine di Matteo Bagnaresi, tifoso del Parma travolto da un pullman di tifosi juventini sull’A21, all’altezza di Crocetta Nord, rimette sul tappeto la questione del trasferimento della rabbia sociale veicolato attraverso pulsioni di campanile calcistico in tutti gli spazi sociali e ancora una volta ci fa capire come sia solo una scelta d i opportunità e di visibilità più corriva a trasformare sovente le nostre curve in scenari di guerra e che solo apparentemente si tratta di tifoserie conflittualmente galvanizzate.
I commenti del giorno dopo, oltre alle diagnosi sociologiche, psicologiche, antropologiche, ovviamente si attestano anche sulle possibili terapie. In genere i suggerimenti si concentrano sulla repressione, sulle limitazioni, su tutto ciò che è un rasoio di superficie.Non solo. Come ormai sempre accade, passato qualche giorno con titoloni sulle pagine dei giornali, poi tutto cade nel dimenticatoio e se ne riparlerà al prossimo incidente. Diciamo subito che questa operazione di maquillage della sicurezza non sortisce nulla se non si analizza un fenomeno di rabbia sociale dal punto di vista di quello che è l’universo giovanile di oggi. Esso non è omogeneo. E’ diversificato per classi sociali e aree geografiche. Sono anni ormai che personalmente porto avanti la necessità analitica di distinguere tra aree metropolitane e aree territorialmente cadette e, all’interno di queste, tra un profondo Nord, un profondo Centro e un profondo Sud. Solo attraverso la spiegazione di un condizionamento ambientale della rabbia sociale, condizionamento che è all’unisono economico e culturale, si può arrivare a una definizione del fenomeno. Non è determinismo sociologico questo. No di certo. E’ solo un richiamo a capire, prima di farci trascinare da emotività irrazionali, attraverso gli strumenti della conoscenza scientifica e della razionalità, onde evitare che improvvisate “intelligenze emotive” agiscano anche istituzionalmente in maniera inutile o addirittura nociva.Purtroppo ogni misura repressiva è frutto invece di una costruzione immaginifica degli ultras sovente prodotti non solo di un’emarginazione sociale orchestrata a tavolino, ma anche del vero mostro della questione, vale a dire questo calcio dello spreco e dell’inganno che questo capitalismo ha creato. Autolegittimare un modello di sicurezza repressivo e violento significa giustificare una manovra votata al fallimento, come dimostrano i tanti Daspo dati in questi anni e che si sono rivelati anch’essi inutili e nocivi. E purtroppo, alla base di tutto, c’è come al solito un’ opera di disinformazione che sacrifica la figura di Matteo, come all’epoca quella di Gabriele Sandri. Non capire questo ( o non volerlo capire) significa ucciderli una seconda volta.*Preside della Facoltà di Sociologia dell'Università La Sapienza di Roma www.dazebao.org
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